Lunedì, 17 Marzo 2014 13:37

Residui manichei

Scritto da  Gerardo

Pubblichiamo una nota di Ezio Albrile, relativa a “una arcaica chiesa romanica e una stranissima cappella della Nostra Signora di Loreto meglio nota come «Chiesa dai Cinque Campanili»”, di fine XV secolo, corredata di illustrazione fotografica.
Buona lettura!



Residui manichei



Perti è una località abbarbicata nel retroterra ligure, interdetta al turismo belluino, satollo di spiaggie e pedalò. Nella meraviglia fortunatamente negata ai più si stagliano una arcaica chiesa romanica e una stranissima cappella della Nostra Signora di Loreto meglio nota come «Chiesa dai Cinque Campanili». Anche se la sua edificazione data la fine del XV secolo, persistono nella sua architettura elementi fortemente stranianti, sì da riternerla prodotto di un genio ereticale. Quei cinque campanili, quasi stelle di un diadema principesco, fanno pensare alla pentade e all’oggetto della sua dedicazione, la Madre di Gesù quale Eva spirituale, la Zōē, la «Madre della Vita». Una figura dalla grande fortuna in fedi ereticali e contrastive come lo gnosticismo o il manicheismo.
Nel Vangelo degli Egiziani, gli «eletti» che hanno compiuto la apotagÄ“, cioè hanno vomitato il mondo nella sua essenza arcontica e demoniaca, ricevono dai loro guardiani celesti i cinque ineffabili «sigilli», sphragides, «nella sorgente battesimale», cioè nel lavacro materno e uterino. Non a caso nello stesso Vangelo gnostico Dio è descritto in fattezze luminose e materne. È Vergine dalle quattro mammelle, testimonianza di un Dio dispensatore di nutrimento e di vita. La pentade è un simbolo comune nella mentalità gnostica. Così un intricato trattato, il Secondo Libro di Ieu, menziona più volte il «mistero dei cinque alberi del tesoro luminoso», al quale si accede tramite il sigillo e la pronuncia del «grande nome». Riflessi gnostici dello aithÄ“r, la quintessenza luminosa che secondo Eraclito sarebbe una scintilla stellaris essentiae. La Luce è la quintessenza eterea e divina del cielo e degli astri, il distillato del Sole, il quinto elemento.
Il Sole, venerato quale dio fra gli altri dèi del firmamento, diventa il Dio supremo, Ahura Mazdā o Zeus Oromasdes, il principio luminoso da cui sgorga la vita, di cui un Cicerone lettore di centoni persiani dirà: Dux et princeps, et moderator luminum reliquorum mens mundi et temperatio tanta magnitudine ut cuncta sua luce lustret et compleat. A proposito di queste parole Macrobio, nel «Commentario al sogno di Scipione», glosserà notando quem Heraclitus fontem caelestis lucis appellat.
Autorevoli studi hanno messo in relazione la dottrina luminosa di Eraclito con le fonti iraniche, in particolare con l’elemento igneo caro al Dio supremo Ahura Mazdā ed al suo profeta Zoroastro. Gli albori della filosofia greca affonderebbero le proprie radici ispirative, se non proprio ideologiche, nel mondo speculativo e letterario della religione zoroastriana. È il perpetuarsi della concezione dello «splendore» luminoso e fiammeggiante, lo xwarrah ( < avestico xvarÉ™nah-), che costituisce nel Manicheismo, la religione gnostica iranica, il primo elemento della pentade luminosa e corrisponde al primo dei figli dello Spirito Vivente, il «Custode degli splendori», Phengokatōchos, colui che sorveglia l’accesso alle terre spirituali site al di là dell’universo fenomenico, esperibile con i sensi.
Nei testi manichei la «Madre dei viventi» (in medio-persiano Mādar Ä« zÄ«ndagān) accoglie nel suo nutriente seno il Salvatore, il SōtÄ“r ormai libero dai famelici lacci della Tenebra serpentiforme. La «Madre» è celebrata come Theos gynomorphe, un «Dio dalla forma femminile», approdo salvifico per i pargoli risplendenti digeriti dall’oscurità. Secondo il mito, allorchè le forze della Tenebra giungono alle soglie del Mondo di Luce, l’Uomo primigenio e la sua prole, i «cinque dèi luminosi» si offrono quale «cibo», si fanno divorare dalle potenze dell’oscurità, così «come un uomo mescola un veleno in un dolce per offrirlo al suo nemico» (Liber Schol. XI, 59 [testo ed. Scher in CSCO 69/Syri 26, repr. Louvain 1954, p. 314, 8-10]); la luce è mortifera per l’oscurità così come lo è l’oscurità per la luce.
I cinque pargoli del Primus homo sono inghiottiti e mangiati dai cinque famelici Figli delle Tenebre, la diabolica pentade, simmetrica e opposta a quella luminosa. Il cibarsi della Luce è un momento saliente nella mitologia manichea, poiché raffigura il punto di suprema degradazione della sostanza luminosa, preda volontaria delle Tenebre: con il risultato che un frammento di Luce viene irrimediabilmente imprigionato, racchiuso nell’oblìo del buio increato.
Anche il buddhismo farà propria la pentade metafisica. Un Buddha infinito siederà su un trono a forma di loto dai mille petali simboleggianti ciascuno uno dei cinque universi. È Amitābha, il Buddha che presiede al Paradiso Occidentale, la SukhāvatÄ«, una serra meravigliosa a cui può accedere solo il puro di cuore; per potervi rinascere bisogna ottenere la bodhi meditando su sedici temi e incoraggiando gli altri a percorrere lo stesso cammino. Amitābha, al tramonto, appare al morente e lo conduce nel suo paradiso dove crescono alberi e fiori preziosi, dove scorrono acque che cantano e i fedeli rinascono nel cuore di un fiore di loto. Un sogno già vissuto dalla Madre dei Viventi manichea.
Negli insegnamenti manichei, le anime dei più vanno incontro a un doloroso cammino, il metangismos, il travasamento della sostanza luminosa, separata e rifusa in nuove identità somatiche (piante, animali, corpi umani): «l’Anima è trasfusa in cinque specie di corpi» (metangizetai hÄ“ psychÄ“ eis pente sōmata). La pentade, cifra sacra, esprime la via verso la finitezza, il compimento di una penosa trasmigrazione. Palese riciclo della dottrina del peripatetico Critolao, secondo cui l’Anima era formata dal «quinto elemento», quinta essentia, pempton sōma, pempton stoicheion o pemptÄ“ ousia. L’ultima espressione, «quinta sostanza», destinata a diventar celebre, era attribuita da Olimpiodoro a Pitagora, il quale insegnava come l’etere fosse in realtà la quinta sostanza (kai ton aithÄ“ra ek tÄ“s pemptes elege ginesthai ousias). Frattaglie di questa arcana sapienza trasmigreranno nell’islam iranizzato. L’Ummu’l-Kitab, la «Madre del libro», un testo sacro di un gruppo marginale di ismaeliti stanziati nella regione dell’Oxus superiore e nel Pamir, reinventa una cosmogonia seguendo l’ispirazione manichea. Dio, dopo aver creato il plÄ“rōma delle Cinque Luci, il mondo archetipale, si dispiega nel divenire per mezzo del logos, del «grido creante» (avaz-i aferinish). Permane l’idea di una perfezione insita nella pentade. Ora, è interessante ricordare il cenno di Esiodo secondo cui le stelle Iadi erano cinque. Un rilevamento cosmologico che ha un parallelo in India, dove il SÅ«rya-Siddhānta ci dice che «il carro di RohinÄ«», cioè Aldebaran, è formato proprio da cinque astri collocati appena sotto la testa della costellazione del Toro.

Ezio Albrile



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